da jonas | Dic 30, 2015 | Schegge
Gerald Oakley Cadogan, secondogenito del Conte & Fabienne De Secondat, sua moglie
1896
Genova, Italia
6
La lobby del Grand Hotel era piena di viaggiatori in arrivo e in partenza. La cabina del telefono era un bugigattolo con le pareti di vetro molato e conteneva a stento due persone.
“C’è la linea? Abbiamo la linea?” Gerald incombeva su Fabienne come un corvo affamato. Milady si rivolse all’operatrice in italiano. Gerald comprese solo due parole: Cadogan Hall.
“Che cosa dice?” L’uomo si sporgeva tanto, quasi volesse incollare l’orecchio alla cornetta anche lui.
Fabienne gli fece segno di tacere. Continuò a cinguettare in quella lingua impossibile e musicale che per Gerald poteva anche essere cinese. Anni di latino ad Oxford non l’avevano di certo preparato al dialetto genovese. Solo Fabienne, che parlava quattro lingue tra cui l’italiano, sembrava capire tutti in quel paese, dai pescatori ai direttori d’albergo.
“Dice che sta provando.”
“Ancora? Non funziona mai niente qui!” protestò Gerald “Odio questo paese, odio questa città, odio…”
“Eccolo. Mi hanno collegata!” attese “Signor Waldorf? Signor Waldorf, sono Lady Fabienne…” sorrise. Gerald notò come fosse un po’ stanca dalle piegoline sulla fronte rotonda.
“Signor Waldorf, chiamo da Genova. Devo parlare con il Conte. E’ urgente.”
Gerald non si contenne più: allungò la mano e strappò la cornetta dall’orecchio di sua moglie e abbaio l’ordine: “Waldorf, sono il Signor Cadogan, mi metta subito in comunicazione con mio padre. Si tratta del Visconte.” Silenzio “Aspetterò. Confido nella vostra rapidità”
Si girò verso Fabienne e le chiese scusa con un bacio sulla fronte: “ Scusa, non volevo essere rude.”
“Non preoccuparti, mio caro.”
“Quanto ci mette? Quanto ci mette?” protestò Gerald “Cadrà la linea con l’Inghilterra se non si sbriga!”
Aggrottò la fronte e si rivolse alla persona all’altro capo del telefono: “Che significa? E’ urgente.” Silenzio. Gerald guardò Fabienne, le fece cenno di uscire dalla cabina.
La donna uscì, richiuse la porta a soffietto e osservò l’ombra scomposta in tanti prismi che era suo marito agitarsi al di là del vetro. Sentiva la voce e stentava a riconoscerne il tono furibondo.
Osservò l’ombra del braccio agitarsi, la mano passare tra il nero-blu dei capelli. Il tono di voce diventava sempre più allarmante. Alcune teste si girarono verso l’inglese che aveva cominciato a inveire dentro la cabina del telefono. Fabienne abbassò lo sguardo sul tappeto.
Il colpo la fece sobbalzare. Ora una ragnatela di crepe si allargava dove il pugno di suo marito si era abbattuto. Il Concierge, il Signor Milani, abbandonò la sua postazione e accorse al fianco di Madame: “Che succede?”
Fabienne guardò il vetro: “Sono mortificata, Signor Milani. Mettetelo sul conto del Signor Cadogan. Vi chiedo scusa. Brutte notizie da casa”
Il Concierge sollevò un sopracciglio e lesse una grande pena: “Se posso esservi di aiuto, Signora…”
“Vi ringrazio”
Dalla cabina solo silenzio.
Fabienne osservò Milani allontanarsi. Poi allungò una mano e aprì il soffietto. La mano tremava.
Non era preparata a quello che vide. Vide Gerald piangere in silenzio. La cornetta stretta al petto. Fu sul punto di richiudere la porta e allontanarsi. Voleva conservare la dignità di suo marito.
Non chiese cosa avesse detto il Conte. Sapeva che il Conte non aveva risposto. Che non si erano parlati. Sapeva cosa aveva detto il Maggiordomo: “Il Conte non intende parlare del Visconte o col Visconte.”
Si limitò a passare un braccio sottile intorno alle spalle del marito: “Non serve. Torniamo a San Terenzo. Non sprechiamo il poco tempo che ci resta. Sei tu la sua famiglia. Siamo noi. Torniamo da Henry e rimaniamo con lui fino alla fine”.
(Vittoria Corella)
On the6th day of Christmas
my true love sent to me:
6 Geese a Laying
5 Golden Rings
4 Calling Birds
3 French Hens
2 Turtle Doves
and a Partridge in a Pear Tree
da jonas | Dic 29, 2015 | Schegge
August Lovelace, Signore dell’East End & Aaron Weatherly, il suo contabile
1887
Londra
5
“E quindi, Mister Wilson, spero abbiate compreso che nella mia reticenza non c’è nulla di personale. E’una questione di principio”
August Lovelace, terminata la sua tirata, si appoggiò allo schienale imbottito della sedia che occupava abitualmente da anni, al proprio tavolo nella grande sala da pranzo dell’East India Club.
Mister Wilson, ricco commerciante di Bournemouth, si vantava di essere fornitore quasi esclusivo di finimenti per l’esercito britannico, amico del segretario personale di Lord Robert Arthur Talbot Gascoyne-Cecil, marchese di Salisbury, Primo Ministro, e di una lunga sfilza di eccellentissimi generali, colonnelli, capitani e via dicendo, fino a sottoufficiali indegni di essere menzionati.
“Io comprendo, Mister Lovelace” lo rassicurò l’uomo, tormentando con crudeltà inaudita il ricco risvolto del proprio cappello, che continuava a rigirarsi tra le dita grassocce come se fosse lì lì per strapparlo da un momento all’altro.
“Tuttavia, trattandosi di un favore unico, ecco, speravo che poteste eventualmente tendermi una mano…proprio perché non si tratta di una cosa personale, ecco… non vi disturberei mai per una cosa personale…”
“E fareste male, Mister Wilson” lo interruppe Lovelace, versandosi da bere. Un cameriere in livrea scattò per fermarlo, ma non fece in tempo e si ritirò alle sue spalle, guardandosi intorno circospetto e augurandosi che il maitre non lo avesse visto.
August Lovelace sollevò il bicchiere di vino, osservando per un momento rapito il liquido di un rosso così intenso e scuro da sembrare nero ondeggiare nella sua prigione di vetro.
Quindi lo avvicinò al viso, assaporando il bouquet corposo e aromatico, prima di bere.
Quando posò il bicchiere le sue labbra, già naturalmente vermiglie, apparivano ancora più scure.
“Io credo molto nelle relazioni personali, soprattutto tra chi si conosce da molto tempo, come nel nostro caso. Io sono venuto al matrimonio di vostra figlia Margareth, e al battesimo del suo primogenito, ricordate? Come sta il piccino, a proposito?” s’informò sollecito.
“B-bene, grazie…” balbettò l’ometto, sempre più sulle spine.
Lovelace, perfettamente a suo agio, intrecciò le lunghe dita nervose sul filetto che andava navigando nel suo stesso sangue nel piatto davanti a lui.
“Insomma, Mister Wilson, io mi sono comportato da amico… vi ho sempre trattato con rispetto… e ora che avete bisogno di me, prendete le distanze, e non vi comportate voi da amico, non mi trattate con rispetto a vostra volta… non va bene”
Mister Wilson, ricco commerciante di Bournemouth e amico del segretario del Primo Ministro, sembrava prossimo alle lacrime.
Ma August Lovelace sorrise, magnifico.
“Su, su, Mister Wilson, facciamo così… Vi aiuterò, proprio perché siete voi, e per Margareth e il piccolo. Un giorno, e non arrivi mai quel giorno, vi chiederò di ricambiarmi il servizio, fino ad allora consideratelo un regalo per le prossime nozze di mia figlia” concluse, strizzandogli l’occhio.
“Oh, la signorina Lovelace si sposa?” domandò Mister Wilson, ancora incredulo davanti a tanta fortuna.
“Molto presto, Mister Wilson, molto presto” ammiccò gioviale Lovelace, mentre l’altro gli prendeva la mano, incerto se baciargliela o stringerla. Optò per la seconda scelta, anche se dal modo in cui si ritirava, inchinandosi a profusione, la sua totale dedizione risultava comunque palese.
Rimasto finalmente solo col suo filetto Lovelace sospirò.
Poi sembrò ricordare di non essere solo e rivolse lo sguardo verso Aaron Weatherly, il suo contabile.
“Mai dire a una persona estranea alla famiglia quello che hai nella testa” sentenziò, riprendendo in mano le posate e tagliandosi un boccone di carne sanguinolenta.
Il Contabile fece segno di ‘sì’ col capo, le labbra strette in una smorfia che non era un sorriso, non ci assomigliava affatto.
Dopo anni ancora non capiva come facesse la gente a presentarsi così, semplicemente, al tavolo del signor Lovelace, dimenticando apparentemente di trovarsi in un ristorante gremito, dove chiunque poteva assistere alla conversazione, all’umiliazione che, il più delle volte, ne seguiva. Dove tutti sapevano che i due brutti ceffi appostati dietro la porta finestra e l’altro brutto ceffo che stazionava accanto all’ingresso erano guardie del corpo del suo datore di lavoro
“Questo incarico diamolo a Miranda, voglio gente affidabile, qualcuno che non si faccia prendere la mano. Noi non siamo assassini, anche se quel beccamorto ne sembra convinto” stava dicendo intanto Lovelace, rivolto a nessuno in particolare, o, presumibilmente, ad Aaron, visto che non c’erano altri seduti al tavolo. Aveva parlato con naturalezza, come se stesse commentando la tenerezza della carne, o il suo sapore.
Il Contabile fece ancora di ‘sì’ con la testa, e poi riprese a raschiare col cucchiaino la superficie del suo gelato, con gli occhi bassi, come un bravo studente diligente, cercando di ignorare il sangue che macchiava le labbra del suo datore di lavoro.
(Federica Soprani)
On the 5th day of Christmas
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and a Partridge in a Pear Tree
da jonas | Dic 28, 2015 | Schegge
Percyval Swan & il misterioso Signor Ripps
Londra
1887
4
Percyval Swan emerse di slancio del muro d’acqua gelida, guadagnando l’ingresso relativamente riparato della Gazette. Rabbrividì, lanciando uno sguardo colmo di biasimo alla pioggia che cadeva talmente fitta da creare una cortina impenetrabile. La primavera non poteva sembrare più distante.
Una pozzanghera si stava già allargando sotto i suoi piedi, ma presto avrebbe potuto liberarsi del cappotto fradicio, asciugarsi i capelli con una spugna morbida e godere del tepore confortante del proprio ufficio. Il pensiero del vecchio bollitore ammaccato che borbottava perennemente sulla stufa gli strappò un sospiro. Ma mentre si voltava per lasciarsi alle spalle quelle condizioni atmosferiche inclementi, colse con la coda dell’occhio una figura nota, dall’altra parte della strada. Dovette strizzare gli occhi, per liberarli delle gocce di pioggia rimaste impigliate tra le ciglia bionde, e perché gli occhiali sottili al momento erano talmente appannati da costituire un impedimento più che un vantaggio. Non si era sbagliato, era proprio il signor Ripps. D’istinto alzò la mano in segno di saluto, domandandosi solo in un secondo momento cosa spingesse l’amico nonché presumibile spasimante di sua sorella Catherine a sostare in quel modo sotto il diluvio. Se si fosse recato alla Gazette per fare visita a Catherine avrebbe potuto cercare riparo nell’ingresso, o salire direttamente al secondo piano, negli uffici della redazione. E invece… Era da pazzi starsene là fuori. La figura dell’uomo si stagliava in modo drammatico, come una statua di sale dimenticata, lasciata a sciogliersi sul marciapiede deserto.
“Signor Ripps!” chiamò Percy, gridando per superare lo scrosciare della pioggia. Strizzò ancora gli occhi chiari, per mettere a fuoco il volto dell’uomo. Stava forse male? Perché rimaneva così immobile? L’acqua gli ruscellava addosso, impregnando il suo cappotto, rendendolo pesante come quello di un annegato. I capelli lunghi aderivano al capo come alghe brune.
“Signor Ripps!” ripetè Percy, a voce più alta, accompagnando quel richiamo con un ampio gesto di saluto. Da quella distanza non poteva distinguere chiaramente l’espressione di Ripps, eppure aveva la sgradevole sensazione che i suoi occhi fossero aperti, fissi, come quelli di certe bambole nei negozi di Hudson Street, pezzi di vetro che della pioggia avevano lo stesso colore. Il pensiero di quegli occhi fissi lo inquietava, e non era la prima volta. Strano uomo quel Ripps, lo aveva pensato fin da subito, ma era così raro trovare qualcuno che andasse a genio a Catherine che non era il caso di fare troppo i difficili. Già… Un potente starnuto lo scosse, costringendolo a flettere la figura allampanata in avanti. Quando si raddrizzò cercò con gli occhi la figura dall’altro lato della strada, invano. Del signor Ripps non c’era traccia.
(Federica Soprani)
On the 4th day of Christmas
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and a Partridge in a Pear Tree
da jonas | Dic 27, 2015 | Schegge
3
“Dormi” ordinò la Voce nel Buio “Dormi. Voglio i tuoi sogni su questo cuscino. Sogna cosa c’è fuori da queste mura”
Jericho dormiva dentro un Cuore. La Stanza era rossa come tessuto miocardico. Le pareti striate di fasce muscolari biancastre. La luce liquida e densa attraversava filtri di granati e rubini, schermata da vetri colorati di porpora e sangue.
“Fuori c’è una Maledizione” sussurrò Jericho. Aveva palpebre sottili come garza, percorse dalle ramificazioni più scure dei capillari. Le ciglia erano spine dentate sulla bocca di una Dionaea Muscipula e gli occhi erano trappole carnivore per farfalle sciocche.
“Conosco le Maledizioni. Sono le uniche storie che mi divertono.” La punta del dito accarezzò le ciglia e gli occhi si chiusero. Buffo come Jericho reagisse proprio come quelle piantine insettivore. Belial decise di farsene portare qualche dozzina, di pianticelle, da disseminare nella Casa. Le avrebbe guardate starsene con le fauci aperte e le avrebbe sfiorate di tanto in tanto, per osservarle richiudersi sul niente. O forse si sarebbe fatto portare insetti e le avrebbe nutrite. Non avrebbe avuto pazienza di aspettare che le piante digerissero le farfalle, quello non era divertente. Ma avrebbe deposto le creature tra le fauci che si richiudevano. Un lembo d’ala, una zampetta che vibra. Tutti, quando muoiono, provano dolore.
“Ogni maledizione è fatta su misura. E’ strabiliante. Io ho la mia, eppure molti farebbero a cambio con me. Io invece potrei fare a cambio con te, se la tua fosse allettante. Racconta.” Il re ritrasse le dita e si chinò sull’uomo disteso sul letto dentro la stanza a Cuore. Per un istante solo parve cercare la gola, come fanno certi esseri maligni nei libri gotici.
“Le Maledizioni ben fatte non si raccontano: potrei parlare e tu sentiresti parole inutili che per te non significano niente. Occorre poter diventare l’altro per capire la sua maledizione. E tu, mio Re, puoi solo essere te stesso e capire il linguaggio che ti è familiare. Non conosci altro che te stesso e questa casa. “
Il Re gettò granelli d’incenso nel piccolo braciere di rame che riluceva del rosso dei muri e delle tende.
“Conosco molto più di quello che credi. Ognuno di voi è un libro con una storia e prima o poi tutti vi aprite alla pagina giusta. A volte quella pagina io la strappo e la brucio insieme all’oppio delle vostre pipe e voi non ricordate più niente. A volte la pagina la incido sui muri del vostro cuore con qualcosa che trasforma i desideri in incubi, così non potete dimenticare mai più. Racconta e ti concederò di scegliere: dimenticare per sempre o ricordare per l’eternità.”
Le ciglia si richiusero sulla farfalla di un ricordo: “Voglio ricordare per l’eternità”
“Diventerà un incubo”
“Così sia. Se è l’unico modo per tenerlo per sempre con me.”
Belial sorrise: “ Ora la tua Maledizione. Apri a quella pagina cosa c’è scritto?”
“Jonas”
(Vittoria Corella)
On the 3rd day of Christmas
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da jonas | Dic 26, 2015 | news, Schegge
Boudicca Lovelace & Henry Cadogan
Londra
1887
2
Boudicca non è come le altre persone. pensava Henry Cadogan, mentre la ragazza di cui era innamorato lo stava baciando. Noi altri siamo solo polvere tenuta insieme dal respiro di Dio. Siamo materia sporca e pesante baciata dalla Vita. Niente più di questo ci è dato capire. Nient’altro possiamo vedere. Questa scintilla è tutto ciò che di bello possiamo sospettare fintanto che siamo al mondo. Siamo terra, siamo fatti degli scarti dello Spirito e certe meraviglie ce le possiamo solo immaginare perché siamo così dannatamente in basso. I poeti, sì, loro a volte ci aiutano. Certe cose ce le raccontano, cercano di farcele vedere, ma a quale prezzo? Conoscete un Poeta sano di mente, voi? Viviamo tutti in un mondo di fate, sempre, ma non lo vediamo a causa della debolezza delle nostre percezioni. Siamo nati per l’infelicità. E poi, un giorno, incontri un essere come lei: una creatura che non fa alcuno sforzo per vedere questo universo incantato, ci vive dentro, lo guarda tutti i giorni. Lei è uno di quegli esseri per cui la Poesia è la condizione Naturale della Vita, è come respirare, è come farsi scaldare dal sole in estate o sentire il profumo del pane.
Io voglio che il mio cuore appartenga ad un essere così. Non mi accontenterò di null’altro di meno. Amerò solo colei che sarà la mia Musa, e la mia Musa sarà così. Suo è il Mondo di Fate del Poeta. Anzi, no, lei stessa è una fata che rende vivo e reale questo mondo ultraterreno. Che fortuna averti incontrata, amore mio. Finalmente so cosa significa essere vivi.
Il bacio di Boudicca era leggero, gli sfiorava appena le labbra e sembrava non finire mai. Henry non osava più di così. Non desiderava più di così. Non poteva usare le mani per toccarle le spalle, mentre la sua bocca si posava come un sospiro su quella di lei. Nel momento in cui si fossero separati, Boudicca sarebbe svanita come una bolla di sapone iridescente e Henry sarebbe morto, lui ne era sicuro. Sarebbe rimasta solo la pioggia fredda della notte e la loro storia sarebbe finita così. Ma quando il ragazzo si scostò da lei, Boudicca non perse consistenza, non si sciolse in polvere di fata e allora Henry sorrise. Si allontanò pochi, infiniti millimetri e le disse: “Ti porterò dove vorrai. Sui tetti di ogni città. Comignoli di Parigi. Balconi e tegole di Roma. Solo per farti felice”.
(Vittoria Corella)
On the 2nd day of Christmas
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and a Partridge in a Pear Tree
da jonas | Dic 25, 2015 | Schegge
Mary Kelly & Karl McCoy
Londra
1887
1.
Intinge il pennino di rame, finché l’occhiello non piange una lacrima d’inchiostro. Poi la punta sfiora il bordo del calamaio. Una, due volte. Lo solleva un istante, forse perché le lacrime in eccesso si decidano a venire giù, o forse aspetta solo l’ispirazione. Poi si china tutta sul foglio grigiastro (era carta da macellaio, un po’ chiazzata di marrone) e inizia a scrivere. “Dove hai imparato a scrivere?” Chiede L’Orco avvolto nella coperta. Un Orco che sussurra va messo nella fiaba. Nel diario. Va scritto. “Sono andata a scuola, sai. Non ero poi così povera, da bambina, in Irlanda” L’Orco fa scivolare la coperta dalle sue spalle, così larghe che oscurano i vani delle porte. E’ calda a sufficienza, porta il tepore della sua pelle. Ha il suo odore, nonostante lui abbia fatto il bagno con acqua calda e sapone poco prima. La coperta, lui la drappeggia intorno a Mary, sulle spalle minute, piccoli incroci d’osso, sotto muscolo morbido e pelle rosata come petali. “E cosa scrivi?” Chide Karl. A torso nudo fa ancora più paura: è grande come i giganti delle fiabe, e le sue cicatrici non si fermano al volto, ma scendono, scendono giù, segnano il torace come zampate di belva. Una è talmente profonda che il capezzolo sinistro è amputato. La cicatrice scende sullo stomaco piatto, disegna un riga ormai pallida come latte lungo la resta iliaca e scompare sotto la cintura dei pantaloni. “Le cose che mi succedono” risponde Mary. Guarda su, verso di lui. Karl è per metà in ombra. La parte sana è al buio e allora potrebbe essere un mostro completo, senza occhi, inciso di ragnatele cicatriziali bianche e rosse, con rientranze sbagliate e sporgenze che non devono esserci. Non potrebbe amarlo di più. “E’ un diario? Tieni un diario? Ci sono anch’io?” chiede il mostro. Fa un passo avanti verso il tavolo e la luce debole del lume a petrolio svela l’altra metà. Bello come un principe, un atleta olimpico, una statua del Partenone. A Mary dicono che quelle statue greche siano la perfezione assoluta. Vorrebbe vederne una per verificare di persona. “Ci sei sempre tu, da quando ti conosco. Ascolta” Da sotto il tavolo prende una scatola. E ricolma di fogli e foglietti. Mary pesca e tira fuori un foglietto piccolissimo, color lavanda: “Lui è perfetto. E così bello, così buono. Era notte, è uscito dal buio come uno spettro e mi ha salvata. Vorrei rivederlo. Sempre che non gli dia fastidio che io faccia quello che faccio. Però lo sapeva, doveva saperlo, eppure era lì per salvare me. E’ l’eroe delle leggende della mia terra, ma è metà Cu Chulaìnn e metà è la Morrigan. Se solo mia nonna avesse potuto vederlo”. Karl inclina il capo da una parte: “Non conosco queste leggende. Perché non me le racconti?” Mary sorride: “Potrebbero spezzarti il cuore” Karl si stringe nelle spalle: “Non si spezza quello che è già in frantumi.”
(Vittoria Corella)
On the first day of Christmas
my true love sent to me:
a Partridge in a Pear Tree