Under a moonless sky

Prequel del romanzo: Federica Soprani e Vittoria Corella, Victorian Vigilante. Le infernali macchine del Dottor Morse, Nero Press, 2015

Uscito su : Penny Steampunk – Un’antologia Steampunk a cura di Roberto Cera

«Dinamite» ordinò Morse. «Va messa un po’ dappertutto, sapete, come il sale o il prezzemolo».
I suoi molti tagliagole srotolavano bobine di miccia come filatrici col loro dipanatoio a bracci mobili, solo che invece che arrotolare una matassa, allungavano anime sottili e facili alla combustione, cammini di fiamma, sentieri di scintilla che portavano alla meraviglia di Alfred Nobel.
In forma di candela, i candelotti a fasci, i fasci collegati con la miccia, la nave Rosa bianca di York galleggiava sull’acqua e sul suo imminente annientamento.
«Andiamo, andiamo» esortava Morse. I suoi mezzi acquatici a propulsione idromagnetica erano carichi di merci preziose dall’India: valevano una fortuna al mercato nero. C’erano metalli in lingotti che abbassavano pericolosi la linea di galleggiamento di quei piccoli siluri subacquei, e c’erano scorte di sostanze che la gente usava su di sé per obliarsi e spesso ne moriva, tanto che era passata una legge per proibirne l’uso. Inutile dire che chi ne dipendeva avrebbe pagato quelle scorte con tutto quello che possedeva in questa vita.
«Andiamo» ribadì Morse, a cui formicolava la nuca, come se qualcuno vi avesse appoggiato la canna fredda di una pistola. Il proiettile era lì, poco lontano. Morse guardava il cielo notturno: buio, nero come quel maledetto mostro mascherato. Abbassò i visori che portava sopra la tesa del cappellaccio. Fece scattare una levetta e la sua visione notturna divenne fosforescente: «È qui». , Aannunciò. L’aveva visto, il dannato mantello che lo stupido si ostinava a portare, con cui effettuava mezze planate che lo facevano sembrare una creatura alata.
I suoi uomini non smisero l’opera di compromissione della nave, ma rallentarono, perché presero a guardarsi sopra le teste.
«Volete saltare in aria anche voi?» ringhiò Morse. «Guardate le vostre mani e i vostri piedi! A lui penso io. Se fate tanto di farmi capire che avete più paura di lui che di me, vi farò comprendere il vostro terribile errore di valutazione».
Morse si tolse un’arma che portava a tracolla: sembrava una balestra. In punta aveva cariche che sarebbero esplose con un urto violento. Tirò indietro il tensore fino a raggiungere il meccanismo di scocca: «Armatura o meno, ti farò un po’ male» millantò. Era sì un buon tiratore, ma colpire lo Spettro di Nebbia non sarebbe mai stato facile. Fucile: forse sarebbe stato meglio un fucile acquatico con l’arpione? Non aveva abbastanza gittata, no, e tanto non c’era più tempo per recuperarlo da uno dei mezzi subacquei che circondavano il mercantile. Continuava a spiare il cielo, la balestra nella mano, attento a non inciampare nei corpi riversi di quei poveri diavoli di marinai che non erano scesi a terra a far bisboccia, ma erano rimasti a sorvegliare la nave e il suo carico non del tutto legale. Ed erano morti per quello.
Periferia del campo visivo, sempre lì si nasconde il bastardo. Sembra una sensazione, un miraggio, all’angolo dell’occhio: ecco che ti giri ed è andato.
Morse si soffermò davanti a una cosa minuscola poggiata sul parapetto: una falena nera. Alzò una mano come per schiacciarla, ma quando l’abbassò la colse nel palmo chiuso come un bambino che ha preso la sua lucciola. La portò al viso, ne riconobbe l’odore: un effluvio chimico ineffabile. Aprì la mano, l’insetto rimase terrorizzato sul palmo per un istante, poi si staccò in volo e scomparve nel cielo nero: «Digli che venga qua, la nave lo aspetta» gli sorrise Morse. Alzò un braccio e fece un gesto che comprendeva tutti: scendete, ora o mai più. I suoi artificieri si affrettarono a deporre le ultime cariche e tutti discesero lungo le scalette di corda che percorrevano il fianco panciuto della Rosa bianca di York per rientrare nei mezzi subacquei.

Fu allora che sull’altro lato del molo esplose una cacofonia di luci lampeggianti e sirene.
L’autoblindo procedeva a velocità sostenuta, alimentato dalle turbine elettromagnetiche e dal motore che occupava la sua intera parte anteriore. Nel buio dei Docks il cofano percorso da lampi di incandescenza e scariche elettrostatiche creava l’illusione delle fauci spalancate di un drago. Quell’impressione era confermata dai lampeggianti sul tetto, che sciabolavano la notte con lame di luce fosforica.
Si arrestò con un violento stridore di freni nei pressi della nave, e per un attimo sembrò una creatura corazzata in agguato, una testuggine blu con le insegne della Yard sbalzate sui lati del carapace.
Poi un portello invisibile si aprì sul fianco, ed ecco un uomo alto, con indosso l’uniforme da Sergente, seguito da un agente, e poi da un altro e un altro ancora.
Il Sergente Malachy Murphy sezionò in un momento la scena, gli occhi chiari più penetranti e implacabili delle luci intermittenti che rendevano la notte giorno a intervalli regolari.
Valutò la sagoma imponente della Rosa bianca di York rischiarata dai lampi azzurri, poi, senza esitazione, si diresse verso una delle scalette di corda che conducevano a bordo e l’afferrò. Ritirò subito le mani con un’esclamazione di sorpresa e disappunto. Di nuovo il suo sguardo scandagliò la notte, con una nuova, rabbiosa urgenza. Si guardò le mani: due sottili strisce di sangue segnavano i dorsi, laddove qualcosa di troppo veloce per risultare visibile lo aveva colpito.
«Credi basti così poco per fermarmi?» ringhiò, rivolto agli alberi svettanti e spogliati del sartiame della nave. Gli parve di cogliere lo sventolare del mantello nero, forse perfino il baluginio metallico della maschera. Quel bastardo non voleva che lui salisse a bordo? Molto bene, questo non faceva che dargli una ragione in più per farlo!
Afferrò di nuovo la scaletta di corda con maggior decisione e la percorse velocemente, issandosi fino al parapetto. Ma quando lo superò col capo, fu investito da uno sciame di falene nere, che minacciò di farlo ricadere all’indietro, nell’acqua fetida del fiume.
«È tutto quello che sai fare, Spettro?» gridò, senza perdere la presa, e con un balzo fu a bordo, scrollandosi dall’uniforme la polvere impalpabile lasciata dalle creature alate.

Indietro, indietro, indietro, bisbigliavano le ali nere delle falene. Indietro, pazzo, avrebbe voluto gridare l’uomo dietro la maschera che osservava Malachy dall’alto. Non riusciva a fermarlo, sarebbe rimasto a bordo incurante dei suoi avvertimenti, e la nave era una Santa Barbara galleggiante!
Aveva spiato Morse riempirla di dinamite, era pronta a esplodere, lo avrebbe fatto disegnando una teoria di deflagrazioni rosse e nere, e l’acqua sudicia dei Docks sarebbe entrata nello scafo e tutto sarebbe morto in fondo al fiume, la nave e tutta la stramaledetta Yard che fosse salita a bordo della Rosa Bianca.
Doveva fermare quell’ufficiale cocciuto, doveva spaventarlo, doveva, doveva… afferrò l’ultima creazione del suo Maniscalco, dischi sagomati a stella usati dai guerrieri giapponesi. Shuriken, aveva detto che si chiamavano Shuriken. Non aveva molto tempo. Lanciò l’arpione esplosivo e passò a volo radente sulla testa di Malachy. Il poliziotto alzò il capo e lo Spettro gli lanciò contro le stelle d’acciaio, perché si piantassero esattamente davanti alla punta dei suoi stivali. Malachy fece un passo. Toc, la stella luccicante e minacciosa per poco non gli trafisse un piede.

«Bastardo!» ringhiò al cielo buio. Un altro passo. Toc! Ancora! Ancora una stella!
«Vattene di qui» intimò la voce metallica.
«Tu piuttosto, arrenditi!» tuonò Malachy, benché non fosse nella posizione di imporre alcunché ad un mostro volante che non si poteva neppure vedere.
«Moriremo» rispose la voce metallica. Malachy aggrottò la fronte: moriremo?
Fu allora che le cariche esplosero, una dopo l’altra e la nave cominciò a venir mangiata da detonazioni e fuoco a partire dalla prua.

Lo Spettro lanciò il suo ultimo arpione, poi sarebbe stato un essere terrestre come chiunque altro e forse sarebbe morto, come il poliziotto così cocciuto. Ma nonostante tutto si gettò verso Malachy, il volo deviato dalle continue deflagrazioni multiple, gli spostamenti d’aria che lo sferzavano e lo riempivano di schegge e detriti; poteva sentirli rimbalzare sulla sua corazza. A volo radente afferrò il Sergente per la vita e lo sollevò, su, su, in alto. Dove lo avrebbe portato il filo tensore che aveva sparato col suo fucile da braccio?
Atterrarono sul tetto di un magazzino. Ma quando lo Spettro si volse verso Malachy, vide solo sangue, sangue ovunque, sul viso, sul collo, filtrava da mille ferite attraverso i vestiti. Nella notte Malachy era nero di sangue. E quando lo Spettro lo distese privo di sensi per poterlo esaminare meglio, si accorse della scheggia lunga un avambraccio che gli emergeva dalla spalla come il paletto dal cuore di un vampiro. L’avesse rimosso, un fiotto di sangue avrebbe decretato shock emorragico e morte. Intorno, solo le grida degli uomini e il crepitio del fuoco.
Il fumo l’avrebbe coperto. Si caricò l’uomo in spalla e si calò dal tetto. Non poteva più volare, non aveva più cariche esplosive nei suoi arpioni. Quando sentì le sirene, seppe dove andare. Si diresse verso le luci intermittenti dell’autoblindo.
«È lo Spettro!» gridò qualcuno, ma nessuno sparò quando si accorsero che tra le braccia teneva il Sergente. Lo Spettro depose l’uomo a terra e subito una chiazza di sangue cominciò ad allargarsi sotto di lui. Comprese che nel momento stesso in cui l’avesse lasciato e si fosse allontanato, gli avrebbero sparato. Levò una preghiera al suo Maniscalco, al Creatore della sua pelle corazzata. Si girò e corse nel buio e nel fumo. Nessuno riuscì a colpirlo. Nessuno riuscì a trovarlo nelle tenebre.
Solo un occhio meccanico ne individuò la sagoma iridescente, grazie al sistema di visione notturna. Dal fondo del Tamigi, Morse aveva osservato la scena a bordo di uno dei suoi gusci subacquei. Schioccò la lingua: «Ho ammazzato uno stupido yarder eroico e ho mancato quel buffone col mantello!»
Richiuse il periscopio e ordinò ai suoi: «Si torna a casa, da bravi. Ho ancora così tanto lavoro da fare».