Una brezza lieve accarezzava il manto erboso, facendo ondeggiare pigramente i fiori di tarassaco che si aprivano come piccoli soli turgidi. Il fogliame giovane che incoronava gli alti tronchi degli alberi stormiva appena, con un suono sommesso di acqua corrente. Maggio sembrava trattenere il fiato, sospeso nell’incanto disteso del meriggio, nel tepore dell’estate precoce. Tutto era silenzio, soavità, armonia.
“Pull!“
Il Blue Rock Trap scattò all’istante con un clangore metallico, proiettando nel cielo terso un disco di terracotta. Il colpo di fucile risuonò immediatamente dopo, scuotendo la quiete della campagna con un boato assordante. Un nugolo di uccelli atterriti si alzò dalla folta chioma di un platano e il loro frullar d’ali coprì il suono di terraglia infranta.
“Gran tiro!” si congratulò Amory Anelay of St.Johns, Barone di Aberconway, battendo le mani deliziato. Lo gridò forte, molto forte, perché lo sparo gli rimbombava ancora ancora nelle orecchie, anche se in realtà stava progressivamente scemando per lasciare il posto a un preoccupante e persistente fischio. Avanzò di qualche passo attraverso il prato, facendo attenzione a non inciampare in Edoardo, il carlino, che salutava il colpo vincente alla sua maniera, saltellando sulle zampette tozze e riempiendo l’aria di latrati striduli.
Lady Isabella Reavley accolse i complimenti del Barone e del cane col medesimo compiacimento, abbassando la canna del fucile. Del resto, la competenza dell’uno in fatto di armi da fuoco non era maggiore di quella dell’altro, inutile illudersi a riguardo. La fanciulla spostò lo sguardo su Edgar, il valletto, che ritto accanto al Trap, si congratulava silenziosamente con lei con uno sguardo forse un po’troppo intenso per un uomo della sua condizione. Isabella decise di perdonargli la presunta sfacciataggine, in virtù del suo tempismo nel lancio dei bersagli e forse anche della bellezza di quei suoi profondi occhi blu.
“Però non riuscirò mai a capacitarmi del perché si debba gridare ‘Pull’ per far lanciare il piattello” osservò Amory, massaggiandosi l’esterno dell’orecchio offeso.
“Sono abbastanza sicura di avervelo già spiegato almeno una dozzina di volte” sospirò Isabella, disegnando cerchiolini aggraziati nell’erba con la bocca di fuoco. “Fino a poco tempo fa si usavano solo veri piccioni, non questi inutili dischi, e il servitore doveva tirare un cordino che avrebbe aperto la gabbia permettendo agli stupidi uccelli di volare. Da qui il comando ‘Pull'” spiegò, senza fare nulla per mitigare il tono petulante.
Amory la guardava con evidente ammirazione. Difficile capire se fosse più ammirato dalle sue doti aneddotiche, dalla sua totale mancanza di empatia e considerazione verso i piccioni, o piuttosto dal modo in cui un ricciolo sfuggiva dalla crocchia morbida che le aureolava il capo come una nube di fiamma, sfiorandole il lungo collo in una carezza discontinua.
“Comunque è davvero una vergogna che non si permetta alle donne di partecipare alle Olimpiadi, Lady Isabella” si affrettò ad aggiungere il giovanotto, distogliendo lo sguardo dal ricciolo impertinente. “Gliela fareste vedere voi!”
Era una patetica menzogna, una penosa captatio benevolentiae. Mai, mai in tutta la vita Amory Anelay of St.Johns avrebbe potuto anche solo lontanamente concepire di permettere a una donna di imbracciare un fucile in un luogo pubblico, tra centinaia di inermi spettatori. Già il fatto che lui si prestasse ad assistere agli allenamenti di Lady Isabella era degno quanto meno di un encomio particolare. Solo il cielo sapeva cosa avrebbe potuto fare quella deliziosa manina armata, essere lì quel giorno richiedeva un coraggio non indifferente. Amory doveva ringraziare solo il proprio sangue freddo e l’innegabile attrazione che quella creatura esercitava su di lui, se si sottoponeva a un simile rischio.
L’azzimato gentiluomo fece per aprire di nuovo la bocca, per uscirsene in una delle sue battute sagaci, quando Lady Isabella alzò di scatto il fucile e gridò nuovamente ‘Pull’. Se aveva creduto di cogliere in fallo Edgar, si era sbagliata di grosso. Il prodigo valletto eseguì diligentemente l’ordine, e un nuovo disco andò in frantumi.
“Perbacco!” esclamò Amory. “Perbacco!” ripeté, perché la prima volta era abbastanza sicuro di non aver udito affatto la propria voce.
Osservò con vaga inquietudine lo scambio di sguardi tra Lady Isabella e il valletto, gli occhi di lei che lanciavano fiamme verdi, le guance lievemente arrossate, le labbra di corallo socchiuse. Quanto all’energumeno, Nigel avrebbe dovuto richiamarlo all’ordine: era quello il modo di sorridere a una Signora?!…
Già, Nigel, dove si era cacciato?
Non molto lontano, ovviamente. Fosse mai che lasciasse la sua preziosa cugina senza un adeguato chaperon. Adeguato poi… Lo cercò con lo sguardo ed eccolo lì, a qualche metro di distanza, seduto ai piedi di una vecchia quercia. Se ne stava con la schiena appoggiata al tronco nodoso, il capo reclinato un po’all’indietro. Dal momento che indossava un paio di occhiali dalle lenti scure per proteggere gli occhi dal sole insolitamente brillante, era difficile capire se stesse rispondendo al suo sguardo, se stesse dormendo o se, malauguratamente, una proiettile vagante sparato dal Remington di Isabella lo avesse colpito, uccidendolo sul colpo. Solo l’assenza di tracce evidenti si sangue sul gilet color crema dell’amico tranquillizzò il Barone, ma non del tutto.
Cercò di richiamare l’attenzione del giovane Conte agitando la mano. L’altro rispose con un cenno indolente del capo. Amory lo interpretò come un invito ad accostarglisi. Vista l’animazione nel volto e nello sguardo di Lady Isabella forse era il caso di frapporre una distanza ragionevole tra lui e l’incontestato oggetto della sua idolatria.
“Che giornata gloriosa!” esclamò, lasciandosi cadere al suo fianco dell’amico. Spiò con la coda dell’occhio una reazione che non venne. Il povero Nigel doveva avere un udito assai delicato. Fece per ripetere: “Che giornata…”, ma l’altro lo interruppe alzando la lunga mano pallida in un gesto infastidito.
“… gloriosa, sì, ho sentito, Amory.”
Constatare che era vivo, se si fosse mai potuto affermare una cosa simile di Lord Reavley, lo colmò di letizia. Insomma, Nigel era per natura e indole vivace come un blocco di marmo e altrettanto incline alle emozioni, ma era pur sempre il suo migliore amico, anche se a volte Amory tendeva a dimenticare le ragioni di quella preferenza.
Anche in quel momento il Conte appariva sofferente, o sarebbe stato più corretto definirlo ‘insofferente’. Se a un poeta appena meno che mediocre fosse stato chiesto di descrivere in poche parole Lord Reavley, Amory immaginava che il risultato sarebbe stato più o meno così:
“Fronte solcata, occhi dardeggianti, intenti
emunte guance, crine rigoglioso, candidi denti.
Insofferente al mondo e negli intenti.”…
Ma dei due l’esperto di poesia era sicuramente Nigel.